“Io, clown in corsia per i bambini del Meyer”.
Duccio, il Dottor Lesso che fa ridere i piccoli malati

Duccio fa il clown per strappare un sorriso ai bambini malati in cura al Meyer. Passa in corsia e nei reparti in punta di piedi, piccoli gesti che allietano le difficili giornate dei piccoli e dei loro genitori: “Non siamo angeli buoni che amano la vita e passano il loro tempo in ospedale. Anzi, è un ambiente duro dove bisogna sapersi muovere e fare i conti con la vita ogni giorno. La clownterapia richiede studio e professionalità come ogni altro mestiere”.

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Conoscendo Duccio ti accorgi subito che l’umorismo è la sua arma per affrontare la vita, e quando ti racconta che il suo lavoro è il clown, non potresti immaginarti mix migliore: “La mia storia è ultra-comica. Avevo appena finito il liceo in ritardo, non sapevo che fare, e sono andato al centro per l’impiego. La signora mi fissa e mi dice: secondo me tu sei adatto per questo! Un corso gratuito della regione toscana: tecnico qualificato nelle arti di clownerie nelle strutture sociosanitarie. Me l’ha messo davanti, lì per lì mi sono anche infastidito, mi prendi in giro? Poi ci ho pensato, in effetti mi piaceva fare ridere la gente”. Senza sapere cosa in realtà significasse essere clown, da quel giorno non ha più smesso di impararlo: “Come primo esercizio l’insegnante mi fece salire sul palco davanti alla classe, e mi disse: fammi ridere. Nonostante la mia spigliatezza e la mia battuta sempre pronta, volevo scomparire, non avevo idea di cosa fare”.

Su quel palco Duccio si imbatte da subito nell’essenza della clownerie: “Quella del clown è un’arte molto difficile che non si riduce al saper far ridere; è l’arte del mettersi a nudo e del trasmettere una verità in cui tutti si rivedono, senza una maschera o un personaggio, come si fa in teatro. Noi abbiamo al massimo un perizoma, come dico io, e cioè il naso rosso”. Durante un corso intensivo alla Escuela Intencaional de Clown de Barcelona arriva l’occasione: “Ci allenavamo in un vero tendone da circo, facevamo spettacoli in strada, nei pub, nei ristoranti. Una vera full immersion. Grazie ad un amico, io e due mie amiche e compagne di corso veniamo a sapere che l’associazione Soccorso Clown, che opera al Meyer, stava facendo dei provini. Senza pensarci due volte ci ritrovammo collegati via skype col direttore artistico dell’associazione, il clown russo ed ex guest star del Cirque du Soleil, Vladimir Olshansky. Dopo una settimana ci arrivò un’email, eravamo passati tutti e tre e urlavamo come pazzi”.

Rientrati a Firenze vengono catapultati nella dura realtà del Meyer:” Mesi di preparazione in aula magna tra psicologi, tecniche di ascolto, e lo studio delle cinque arti utili alla clownterapia: marionette, magia, musica, improvvisazione e giocoleria. Finito il corso ci siamo ritrovati nelle stanze del Meyer con un lavoro da svolgere: la prima cosa fondamentale era imparare a mettere da parte l’ego; non sei un clown che fa uno spettacolo per ricevere gli applausi, sei un antagonista che fa diventare protagonista ogni bambino. Lo scopo della clownterapia, infatti, è quello di cambiare l’energia della stanza e migliorare la degenza del paziente, e non fare ridere a tutti i costi”. Per farlo in ospedale ci sono delle regole ben precise: “In gergo diciamo di lavorare con la “parte sana del paziente” e di vedere in lui solo un bambino, e non un bambino malato in ospedale. Siamo ospiti. Vengono prima i medici, gli infermieri, i fisioterapisti, gli addetti alle pulizie, e poi noi, per ultimi. Non dobbiamo mai intralciare, diciamo buongiorno e facciamo passare avanti. Ogni volta guardiamo dalla finestra se i bambini dormono, bussiamo, apriamo piano piano la porta e chiediamo se ci vogliono. Magari ci rispondono no, oggi no. Allora ringraziamo e richiudiamo la porta. Altrimenti entriamo, ci presentiamo, io sono Dottor Lesso, e subito capiamo che situazione abbiamo davanti: ci sono i timidi, i paurosi, gli estroversi. Può essere che basti una finta caduta per sentire una risata sonora, e allora il nostro lavoro è finito. Può essere che passino diversi minuti prima di vedere un sorrisino debole.”.

Questo richiede esperienza e tecnica: “Si è sempre in coppia, funziona così. C’è il clown bianco, quello intelligente, o meglio che crede di esserlo, Ollio, e il clown rosso completamente stupido, Stanlio. Il rosso deve seguire tutto quello che dice e fa il bianco. Tutto succede grazie alla loro complicità. Non si tratta di fare una giocoleria impressionante e andare via. Si tratta di instaurare un rapporto tra clown e paziente; spesso lo facciamo senza neanche parlare o tirare fuori oggetti”. Passano in punta di piedi, e con piccoli gesti esperti cambiano lo spirito di bambini, genitori e infermieri, in un luogo in cui anche un mezzo sorriso conta. Proprio per questo, Duccio, il clown rosso per indole, ci tiene a rendere giustizia al suo lavoro: “Non siamo angeli buoni che amano la vita e passano il loro tempo in ospedale. Anzi, è un ambiente duro dove bisogna sapersi muovere e fare i conti con la vita ogni giorno. La clownterapia richiede studio e professionalità come ogni altro mestiere”. Parola di Dottor Lesso.

 

 

 

 

 

 

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