“Mio padre è nato a Patrasso in Grecia, i suoi genitori erano pescatori di Polignano a Mare in Puglia, Patrasso era una città marittima che dava opportunità lavorative a tutti, ai pescatori in particolare, ed i pescatori pugliesi agognavano la Grecia per avere una vita migliore, si viveva bene là, la Puglia era desolata, non c’era niente”. Patrasso era famosa e c’erano già tanti italiani, si stava formando una comunità, prevalentemente di pescatori, non c’erano fabbriche sull’isola, c’era un quartiere italiano ed italiani e greci vivevano in armonia. “I miei nonni si sono portati dietro le loro tradizioni, non mangiavano greco, mangiavano pugliese: facevano le orecchiette, la pizza”.
Dopo la fine della guerra nel ‘45 gli italiani che vivevano in Grecia sono stati cacciati ed i loro beni sono stati confiscati, hanno dovuto lasciare tutto e sono stati rimpatriati in Italia con lo status di profughi. “Mio padre Nicola arrivò a Firenze in via della Scala 9, una vecchia caserma che venne trasformata in dormitorio per profughi dove vennero accolti tutti gli italiani greci, vivevano tutti ammassati e dormivano per terra con coperte fatte di spaghi”. Le famiglie fiorentine che vivevano nelle vicinanze diedero prova di grande solidarietà, regalavano vestiti, cibo, quello che avevano, nonostante fossero appena uscite da una guerra fecero qualcosa per i “greci” venivano chiamati così coloro che erano sfollati in città, di italiano avevano solo le origini: non parlavano più la lingua, parlavano greco e nessuno li capiva. “Anche mio padre non parlava italiano ma faceva Labate di cognome. Si trasferì a Firenze per necessità: dove la rotta degli esuli andava lui andò e quel luogo fu Firenze, a caso, per caso. Anche mia madre era nata in Grecia e anche lei esule era finita in via della Scala, conobbe mio padre lì e si innamorarono”. Alcuni esuli erano lì solo di passaggio destinati poi ad altri luoghi: Bologna, Bari ed altre città pugliesi. Quelli che rimasero, una volta stabilitisi in via della Scala, iniziarono a cercare lavoro, chi non ci riuscì si diede al contrabbando di tabacchi.
“Mio padre trovò lavoro come ortolano sottoposto da due sorelle che avevano il banco di proprietà all’arco di San Pierino, in Piazza San Pier Maggiore. Lo conoscevano tutti, lo amavano tutti e anche se non parlava l’italiano si faceva capire. Per tutti era il “greco”. Quel lavoro era la sua grande passione, ci metteva entusiasmo in quello che faceva, era sempre felice e fu la fortuna di quelle due sorelle: in quella piazza di banchi di frutta ce n’erano tanti ma quando c’era lui, a quel banco c’erano fiumi di donne a fare la spesa, lo disponeva con amore e forse quell’amore si percepiva”. Il padre di Rosanna riuscì a rilevare l’attività delle due signore e dopo un po’ di tempo ne divenne proprietario, fu la gioia della sua vita, il suo orgoglio. Lui era quel banco, quel banco era un’estensione di lui e della sua voglia di vivere.
“Sono cresciuta in mezzo alla frutta e alla verdura e con l’entusiasmo di mio padre che quando lo vedevo lavorare mi si riempiva il cuore, era luce mio padre e quella luce l’ha trasmessa a me e anche alla piazza, a quello che gli stava attorno. Quel lavoro per lui era tutto. La sua passione per questo lavoro era talmente tanta che era inevitabile che la trasmettesse anche ai figli. Io lo aiutavo sempre, fin da ragazzina, poi crescendo ho provato a fare altri lavori, ho fatto per un po’ di tempo la commessa in dei negozi ma in qualche modo cercavo sempre un modo di venire via e andare a fare l’ortolana, tornavo sempre al banco, a mio papà, alla sua passione che era anche la mia, non ce la facevo, era più forte di me, io volevo fare solo l’ortolana, non sognavo altro che fare questo, che stare al banco, con mio padre a coltivare il nostro sogno”.
Oggi il Banco di San Pierino è di Rosanna e di suo Figlio Niccolò e lavorano insieme con passione, la passione di famiglia. Un banco che ha 100 anni, il Banco di San Piero, carico di frutta e di ricordi, un sogno di famiglia che vive attraverso le generazioni. Rosanna è conosciuta da tutti come la Rosy, sorridono gli occhi alla Rosy, ha sempre una parola buona per tutti ed accoglie i suoi clienti con grande calore umano e con quella luce che aveva anche suo padre. A qualsiasi ora del giorno Il banco di San Pierino è un tripudio di bellezza e colori: la frutta e la verdura sono tutte ben disposte, c’è anche il formaggio del pastore del Mugello e le uova fresche delle galline di Montemorello. Il banco della Rosy è pieno di luce perché c’è lei e la sua gioia, la stessa gioia di suo padre. Le persone si affollano al suo banco, c’è sempre gente e sempre persone che le fanno i complimenti. “La mia giornata inizia alle 6, quella di mio figlio Niccolò alle 5, lui va a scegliere i prodotti al mercato ortofrutticolo tutte le mattine ed io sistemo il banco. Arrivo a Firenze in tramvia e passo da piazza Duomo quando ancora non c’è nessuno ed è deserta, è il mio rito mattutino, mi fa sentire bene, fortunata di poter sentire il Duomo tutto mio. Mi sento di appartenere a Firenze anche se la mia storia familiare ha fatto tanti giri. Io sono nata a Firenze ma la prima lingua che ho imparato è stato il greco dai miei genitori, ho fatto fatica a scuola perché dovevo imparare un’altra lingua che per me era l’italiano, Firenze mi ha accolta e piano piano sono diventata parte di lei, come lei è diventata parte di me: è il mio destino”.
Rosy è felice di poter lavorare al fianco del figlio e portare avanti il sogno della famiglia: “Quello che ho sempre insegnato a mio figlio fin da piccolo è di amare e di onorare quello che si ha. Lui ha sempre visto in me, nella nostra famiglia, questa passione ed in qualche modo, a suo modo, l’ha fatta sua. A tanti questo lavoro potrà sembrare faticoso ma per me ogni giorno è la gioia e non mi pesa per niente, questo lavoro mi dà energia non me la toglie, amo stare al pubblico e penso sempre a come far felici i miei clienti. Mio padre ha lavorato finché ha potuto, è morto giovane, di un tumore, a 57 anni, ma il suo spirito rimane a San Pier Maggiore e il suo sogno è visibile a tutti, vive in noi e nella città. La vita di mio padre è stata un dono, un dono che onoro ogni giorno con la gioia per questo lavoro. Andrò in pensione sulla carta ma voglio continuare a lavorare: non mi piace l’idea di mettermi da parte, a me piace lavorare e non riuscirei a lasciare il mio banco”.