Elèna, 8 mesi in missione in Iraq e tutto cambia.
«Al ritorno estranea a casa mia»

Dopo decine di settimane nel cuore del Medio Oriente martoriato, torna a Firenze e trova un mondo a cui non era più abituata: «La mia amica mi raccontava dei suoi problemi sul lavoro, usava parole come “master… tirocinio… marketing…”. Tutte parole prive di significato per me, che mi rimbalzavano in testa»

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A 26 anni, Elèna firma un contratto a tempo determinato con l’ONG Première Urgence Internationale e decolla da Parigi per atterrare in Kurdistan, ad Arbil, il capoluogo del Kurdistan iracheno in cui avrebbe vissuto i mesi a seguire. «Il giorno prima della partenza ero in una stanza d’hotel con una valigiona piena di angoscia ed eccitazione. Una volta arrivata lì, tutti si aspettavano molto da me, ricoprivo un ruolo centrale in quanto Grants Officer. Mi sono dovuta adattare subito, ma la cosa non mi sorprendeva perché, partendo, sapevo a cosa andassi incontro. L’Iraq si trova in un contesto di post-conflitto dopo la fine dell’occupazione dell’Isis, con popolazioni dislocate e città parzialmente distrutte. Mi ricordo quando ci furono i bombardamenti nel nord-est della Siria, e tra le mie funzioni c’era quella di monitorare giorno per giorno il numero di ingressi nel Kurdistan iracheno di minori perlopiù non accompagnati, persi o orfani».

La realtà di Elèna viene completamente capovolta, ciò che prima di partire dava per scontato non lo è più. Nonostante fosse protetta e vivesse nel comfort insieme ai suoi colleghi, priorità, abitudini, divieti e circostanze sociali le cambiano radicalmente. La sua libertà di movimento era limitata, veniva quotidianamente sottoposta a misure di sicurezza preventive, e la cultura locale imponeva una certa distanza fisica. «Giornalmente mi trovavo di fronte a situazioni impensabili per la società in cui ero cresciuta. Persone la cui unica preoccupazione era sopravvivere, bambini senza futuro e opportunità, genitori impotenti la cui principale attività era assicurarsi che una ONG fornisse cibo e assistenza sanitaria ai propri figli. Quando cammini in un campo di sfollati interni scopri cosa significhi il termine incertezza: incertezza sulla vita, sulla possibilità imminente di una guerra, non su quale università scegliere».

È così che terminano gli 8 mesi di missione e arriva il momento di richiudere la valigiona piena di nuovi sentimenti, e forse un po’ di ingenuità: «Ero sicura di tornare e stare bene. Finalmente riavere tutti i comfort, ritrovare Firenze, gli affetti, il più semplice contatto fisico e le mie abitudini. Ritrovare casa». Invece, Elèna, fin dai primi passi nell’aeroporto di Firenze, scopre che casa è un luogo nuovo, estraneo. «In aeroporto, appena atterrata, ogni dettaglio mi colpiva. Due persone di sesso opposto che si abbracciavano mi lasciavano stupita. Qualsiasi piccolezza, anche l’abbigliamento occidentale mi sembrava diverso dopo l’Iraq». Subito si rende conto che rientrare a casa non è sinonimo automatico di ritrovare casa. «Mi sentivo dentro una bolla. Ero fredda e distaccata, incapace di comprendere situazioni divenute irrilevanti. La mia amica mi raccontava dei suoi problemi sul lavoro, usava parole come “master… tirocinio… marketing…”. Tutte parole prive di significato per me, che mi rimbalzavano in testa».

Ogni piccola azione quotidiana era motivo di confusione e disorientamento dopo i mesi passati ad occuparsi di ben altre priorità: «Mi viene in mente questo ricordo. Poco dopo il rientro ero seduta al ristorante, al thailandese, e vidi la persona del tavolo accanto sbuffare e lamentarsi per l’eccessiva attesa. È la sensazione di insofferenza che ricordo ancora. Avevo voglia di alzarmi e dirle: cavolo, sii felice del cibo. Parte di me era ancora in missione. Ogni mattina il mio pensiero andava in Iraq, mi sentivo in colpa. Io ero ripartita e tornata ad occupare le mie giornate pensando a carriera e possibilità. Loro erano rimasti là». Per i genitori e gli amici era la stessa ragazza partita 8 mesi prima: «Loro si relazionavano all’Elèna di sempre, ed io non la trovavo più. Non era colpa di nessuno, ho tenuto la confusione per me, in fondo nemmeno io ero in grado di definirla. Mi mostravo immutata perché non volevo appesantirli con una tristezza che non appartiene a questo mondo, a Firenze».

Ci sono voluti dei mesi per ricalibrarsi con le dinamiche della nostra società e per trarre conclusioni che Elèna si porterà dietro per sempre: «Si dà per scontato che essere a casa dopo una lunga assenza, significhi sentirsi a casa. Eppure la sensazione di casa è un concetto molto più complesso, fatto di contesto, valori, limiti, priorità, e libertà. Il ritorno dall’Iraq mi ha insegnato che sentirsi estranei a casa propria è tanto pauroso e destabilizzante, quanto importante. Rientrandoci piano piano, con pazienza e fatica, ho rivalutato profondamente cosa casa significasse davvero per me: la fortuna di essere nata dove esiste un margine di scelta».

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