Carlo, orefice da tre generazioni.
«La pandemia peggio dell’alluvione del ’66»

Una bottega sopravvissuta più di 130 anni, ma oggi lui si sente un miracolato: “Il buio per la nostra categoria è iniziato ben prima del Covid, la politica non ha mai favo-rito il ricambio generazionale, così si è smarrita un’arte antica”

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“La voce mi si crepa sempre un po’ quando devo parlare di certe cose. La prima bottega da orefice l’aveva aperta mio nonno Vincenzo Bandini, nel 1890. Poi è subentrato babbo Mario, quindi io. Da quel punto lì in poi, il blackout. La classe politica locale se n’è fregata dei nostri appelli: ci costringevano a pagare i giovani apprendisti più di quanto potessimo. Risultato? Non ne abbiamo più presi e un mestiere antico e nobile come questo è andato smarrito. Senza ricambio generazionale, a Firenze, non vedo più gioielli fatti bene, come una volta. Che rabbia. Che tristezza”.
Carlo Bandini è uno degli ultimi orefici di Firenze, resiste giorno dopo giorno. Ricorda la sua storia. “Per me era iniziato tutto da piccolissimo. Babbo e mamma mi portavano tutte le domeniche a fare un giro per il centro e io ricordo che mi dovevano tirare per la giacca tutte le volte, perché rimanevo inchiodato davanti alle vetrine. Vedevo questi gioielli brillare imperiosamente e sognavo, un giorno, di costruirli anch’io. Io sono nato nel 1947, al Galluzzo: gli anni Cinquanta e Sessanta erano davvero un’epoca feconda. Ricordo che gli orefici facevano a gara tra chi faceva il gioiello più bello. Ora di tutto questo non c’è più traccia, se non un pensiero dissolto”.

“Aprii la mia prima bottega con un pessimo tempismo, nel ’66, l’anno dell’alluvione a Firenze. Dopo una bella gavetta in giro per i maggiori maestri cittadini mi ero preso in affitto questa stanzetta di 12 metri quadri, in via dello Sprone. L’acqua arrivò fino al primo piano, tutto galleggiava e io pensai: ‘Un gran bel modo per iniziare!’. Poi gli angeli del fango ci risollevarono. Da una grande tragedia germogliò una reazione profonda, che portò alla ripresa. I primi tempi da solo furono ingarbugliati, ma alla fine ingranai. Negli anni Settanta e Ottanta noi artigiani lavoravamo anche dieci ore al giorno, senza sabati né domeniche. Le prime ferie me le sono fatte dopo trent’anni. Oggi siamo agli antipodi rispetto a quel mondo lì. Ho passato l’attività a mio figlio Simone, ma sono ogni giorno sul pezzo a supervisionare tutto, anche se ho settantacinque anni. Ora la bottega si trova in via Stracciatella al numero 4, ad una manciata di metri da Ponte Vecchio. Serviamo molti di quei negozi, ma la crisi adesso ci ha avviluppato. Questo però è un altro discorso: non siamo ipocriti, il nostro periodo tetro è iniziato molto prima del Covid. La pandemia ci ha soltanto inferto la spallata finale”.

“Pensare che babbo aveva lavorato anche per il Papa: la bottega faceva tanti articoli religiosi, come croci, calici, candelabri. Io stesso ne ho forgiati diversi. Che prestigio avevamo all’epoca! Poi siamo sprofondati, perché la politica si è voltata dall’altra parte per decenni. Ci hanno detto che un apprendista doveva essere pagato come un operaio, ma chi li aveva quei soldi? Quali incentivi ci hanno fornito? Così facendo, siamo arrivati all’impoverimento totale. Anche oggi ospito giovani volenterosi in bottega, ma non posso offrire altro che la mia esperienza. Gli dico: ‘guarda, io ho sempre rubato con gli occhi, anche soltanto spazzando la polvere dei metalli’. Io e i miei colleghi pensiamo, piuttosto, che le istituzioni avrebbero dovuto sostenerci economicamente: formare un giovane richiede tempo e pazienza. Che succede, quindi? Che i ragazzi se ne vanno nelle scuole e i genitori sborsano rette da 10mila euro l’anno quando va bene. Quello che però impari in bottega, sul campo, è un’altra cosa. Le nuove generazioni non sono formate adeguatamente e per questo molti non trovano lavoro”.

“Poi c’è l’altro aspetto, quello della crisi. Firenze assomiglia ad un grande contenitore vuoto da due anni. I negozi non ci commissionano più gioielli. I facoltosi turisti che animavano Ponte Vecchio e dintorni sono scomparsi: se prima ne passavano mille al minuto, ora ne passa uno. Noi sopravviviamo da oltre 130 anni, a fatica, ma resistiamo. Abbiamo visto di tutto, ma questa cosa qua, economicamente, è peggio di una guerra, peggio dell’alluvione. Mai vissuta una roba del genere in mezzo secolo di lavoro. Trascorriamo le nostre giornate nel ricordo dei fulgidi giorni passati. Che bello quando quei clienti americani mi chiamarono dagli States per ringraziarmi. Che orgoglio quando mi arrivarono quelle perle australiane e creai pezzi unici su commissione per quella nobile famiglia. Oggi non restano che questi ricordi sbiaditi. I gioiellieri veri sono stati rimpiazzati dai bottegai, gente che non saprebbe distinguere il rame dal bronzo. Credo che arrivati a questo punto le cose non cambieranno più”.

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