La temperatura è vicina allo zero, l’équipe è pronta. Protetto da una soluzione di ghiaccio tritato, il rene arriva sul “banco”. Le fasi di preparazione si succedono rapidamente: via il tessuto adiposo, controllo dei vasi sanguigni, liquido di lavaggio… Il professor Sergio Serni, seduto alla sua scrivania, nel reparto di Urologia di Careggi, recita come se fosse una poesia mandata a memoria i passaggi cruciali che precedono un trapianto renale. Potrebbe apparire routine, ma ogni intervento è una storia a sé, ci tiene a precisare.
Fiorentino, sessantadue anni, da quattro Serni è direttore della Chirurgia urologica robotica, mini invasiva e dei trapianti renali del Dipartimento oncologico e di chirurgia diretto dal professor Marco Carini. Un professionista stimato, un mentore per molti specializzandi, che non si assuefa all’adrenalina della sala operatoria o al dolore di un espianto da una vita che finisce. «Per me l’emozione più bella sarà sempre quando permettiamo al flusso sanguigno di tornare a scorrere nei vasi renali e il rene si gonfia, prende colore, inizia a funzionare. È come essere l’artefice di una rinascita, come far venire al mondo la persona una seconda volta» racconta pacato. A sentir parlare Serni, l’anatomia umana è pura sinfonia. «Il rene è un organo speciale, che svolge una funzione di depurazione fondamentale per la nostra salute. Il trapianto lo rende quindi un dono prezioso, che oggi può essere eseguito anche con la chirurgia robotica, consentendo una più precoce ripresa delle attività quotidiane».
Il professor Serni, oltre ai trapianti renali, si occupa a 360° del trattamento medico e chirurgico delle patologie di interesse urologico, prevalentemente di natura neoplastica. Pur avendo abbracciato da anni la chirurgia mini-invasiva, soprattutto robotica, e rivolgendo sempre lo sguardo alle innovazioni tecnologiche con curiosità e flessibilità, non nasconde la sua passione anche per la cosiddetta “chirurgia open” tradizionale. Da sempre coltivata fin dagli anni della sua formazione, questa modalità – dice lui stesso – «è ugualmente in grado di esaltare l’anatomia umana, e rende l’atto chirurgico maggiormente condiviso tra tutti i membri dell’equipe. Credo sia fondamentale la capacità di padroneggiare le diverse tecniche chirurgiche al fine di adattare la migliore strategia di cura alle esigenze del singolo paziente».
A Careggi, il professor Serni ha raggiunto molti traguardi. Insieme alla sua squadra, ha incentivato i trapianti da donatori viventi e ha avviato un progetto pilota per il prelievo dei reni in pazienti deceduti per arresto cardiaco. Nel 2017, lui e la sua équipe hanno eseguito sette trapianti in 48 ore. E nel 2019, per la prima volta in Italia, ha eseguito tre trapianti da donatori viventi, incompatibili immunologicamente con il proprio partner di riferimento, utilizzando la tecnica cross-over cioè dell’accoppiamento incrociato. «È stato un momento indimenticabile. Abbiamo dovuto fare tutto in successione rapida per non compromettere niente: eravamo davanti a un atto di estrema generosità, una situazione molto delicata, anche dal punto di vista umano» racconta il chirurgo.
In queste situazioni occorrono concentrazione e resistenza. Ma davanti agli scossoni dell’emotività, Serni non è certo il tipo che si tira indietro. Magari è capace di mangiare solo una banana a pranzo e di non bere per dieci ore, i pazienti hanno bisogno di lui e gli entrano nel cuore. «Hanno grandi aspettative ed è normale che vedano in me la persona che può far loro del bene. Con molti di loro instauro un feeling speciale, un modo di comunicare e di comprenderci a vicenda. Dietro ogni rene c’è una persona con la propria situazione. Ci sono le operazioni lunghe e complicate, quelle in cui fatichi a trovare la soluzione, quelle che richiedono la collaborazione del paziente. In ognuna, ci metto tutto il mio amore e il mio impegno. Non mostro segnali apparenti di coinvolgimento, mantengo il distacco, ma spesso i pazienti intuiscono le mie emozioni». Certo, è capitato che qualcosa andasse storto. «Quando un intervento non va come dovrebbe reagisco cercando di capire il perché. Istintivamente rimango male, ma poi il mio obiettivo diventa individuare il problema per evitare che si ripeta. Per fortuna, intorno a me, c’è un’ottima squadra».
Stanchezza? «Quasi mai, mi capita invece di sentirmi insoddisfatto. Per esempio quando il mio lavoro è sopraffatto dalla burocrazia» risponde. «Alle 7 di mattina sono già in corsia con il professor Carini. Poi, sala operatoria anche fino alle 19. A casa, ceno e alle 10,30 vado a letto. Mia moglie è sempre stata al mio fianco. Capisco che lavoro troppo solo quando mi capita di rientrare un po’ prima del solito e i miei figli mi guardano e mi chiedono un po’ allarmati: “Ma che cosa è successo?».