«Io, malata Covid, 37 giorni chiusa in una stanza d’albergo»

Oltre un mese isolata in una camera a Gavinana in compagnia del libro di Marquez "Cent'anni di solitudine": «Questa esperienza mi ha insegnato a cambiare la gestione del mio tempo, a pensare con tenerezza al passato, a progettare il futuro per non cadere vittima della depressione»

Condividi questa storia su:

Condividi su facebook
Condividi su twitter
Condividi su linkedin
Condividi su whatsapp

Quando si è soli, chiusi in una stanza, con il cellophane sul materasso che scricchiola e i cuscini avvolti in sacchetti, la cosa da non chiedersi, per non dare di matto, è “che cosa faccio ora”. Silvia Pinna, infermiera di 32 anni ha passato 37 giorni in isolamento in un albergo di Gavinana per riuscire a sconfiggere il Coronavirus che ha contratto a lavoro, in una struttura sanitaria privata in provincia di Firenze.

«Ero stata assegnata al reparto dei sospetti Covid, avevo la mascherina da chirurgo, questo virus ha colto alla sprovvista anche noi come tutti. Ma quando sei lì a fare il tuo mestiere e un paziente ti dice che gli manca l’aria, che ha bisogno di aiuto, hai due scelte davanti, o gli volti le spalle e rinneghi il senso del tuo lavoro, o accetti il rischio e lo aiuti», dice Silvia.

I pazienti della struttura che risultavano positivi al Covid erano spostati immediatamente nel reparto specializzato dell’ospedale di Ponte a Niccheri, ma il personale sanitario del reparto dei sospetti Covid, circa 20 persone, ha fatto comunque in tempo ad ammalarsi a sua volta. «Ho saputo che il mio tampone era positivo il giorno di Pasqua. La prima cosa che ho pensato? Mi sono chiusa in camera, troppa la paura per i miei genitori che vivono con me».

È iniziato così l’isolamento di Silvia, un po’ di febbre, mal di testa, tosse e raffreddore, ma soprattutto il terrore di contagiare altri. Chiusa nella sua stanza, con la terapia sperimentale che veniva somministrata in quel periodo, con i pasti lasciati su uno sgabello fuori dalla porta e la candeggina a portata di mano per disinfettare tutte le superfici toccate, Silvia ha fatto subito domanda per avere un posto in un albergo dedicato alla quarantena dei malati Covid.

«Ci sono voluti 13 giorni ma alla fine ho avuto il posto in questo albergo a tre stelle in via di Ripoli – racconta – A quel punto non avevo più sintomi, ma il tampone che mi facevano ogni settimana continuava a dare esito positivo, potevo trasmettere il virus, servono due tamponi negativi per dirsi completamente guariti. Sono potuta uscire solo il 30 maggio».

«Per una come me abituata a vivere il presente – spiega Silvia – questa esperienza ha insegnato a cambiare completamente la gestione del mio tempo, a pensare con tenerezza al passato, a progettare il futuro per non cadere vittima della depressione. Anche se dopo ogni tampone positivo la tristezza mi faceva da compagna». In quell’isolamento forzato erano di consolazione le videochiamate con i familiari e gli amici, era di consolazione la routine costruita intorno alla lettura di “Cent’anni di Solitudine” di Marquez, alla visione dei film di Netflix, alla ginnastica, allo studio di biologia e chimica, alla navigazione sul web alla ricerca di informazioni dal resto del mondo.

«Il momento più atteso ad un certo punto è diventato il quarto d’ora al giorno la mattina, quando le signore delle pulizie venivano a rassettare la stanza – dice Silvia – erano carine, parlavano del più e del meno con me, era il contatto più umano che mi teneva legata alla realtà. Poi c’erano i dieci minuti alla finestra a parlare con la collega ricoverata al piano di sotto dello stesso albergo, ma non erano conversazioni troppo comode».

Una piccola novità è arrivata quando a maggio si è approdati alla fase 2 e il fidanzato di Silvia è potuto andare a farle visita, da sotto la finestra dell’albergo: «Leggevo il labiale soprattutto – scherza Silvia – tra il traffico della strada e la distanza non c’era modo di fare diversamente. Ma era già un sollievo potersi vedere».

«Il momento peggiore di questa esperienza? Quando sentivo la gente nelle altre stanze piangere e lamentarsi. Oppure quando la mia collega mi ha raccontato di essere stata presa a male parole da qualcuno in strada perché era uscita sul terrazzino della camera senza mascherina. Ci siamo ammalati facendo il nostro lavoro, non abbiamo colpe, siamo dovuti restare settimane e mesi senza un’ora d’aria, senza un contatto umano e ci siamo sentiti anche stigmatizzati dalla gente di passaggio, una situazione assurda»

Ora Silvia si gode le sue ferie al mare, «mi sto riprendendo piano piano, anche camminare non era più scontato dopo tanti giorni chiusa in una stanza. La paura di questo virus resta, serve che tutti ci impegniamo a rispettare le regole che ci hanno dato, mascherine, distanziamento, utilizzo del gel disinfettante e resta da vedere se il virus tornerà in forze in autunno e inverno».

 

Condividi questa storia su:

Condividi su facebook
Condividi su twitter
Condividi su linkedin
Condividi su whatsapp

Rimani Aggiornato