“Avevo appena iniziato un nuovo lavoro quando, un giorno, trilla il telefono. Dall’altro capo della cornetta mi comunicano che sono stato ammesso al corso di dottorato in studi storici a Firenze, con borsa. All’inizio trasalisco per l’emozione. Poi aggancio e mi sfrego la fronte con indice e pollice. Ci penso su soltanto per un po’, quindi decido: adesso o mai più”.
Da quella chiamata sono passati esattamente 4 anni. Lorenzo Pera, trentaseienne di Castelfranco di Sotto, non ci ha mai ripensato. Le sue certezze non sono state scalfite dall’idea in sottofondo di un futuro incerto. Non ha vacillato nemmeno quando è arrivato il Covid. Anche se, ammette, quello ha complicato tutto.
“Non è stato, comunque, un percorso liscio. Avevo faticosamente conquistato un posto per un’importante agenzia per il lavoro fiorentina, con prospettive future importanti. Quella che avevo di fronte si prospettava come una decisione complessa, perché non ero più giovanissimo e mollare tutto poteva apparire avventato. Ricordo di aver trascorso nottate intere di turbamento: l’idea di mettere su una famiglia sbatteva contro la precarietà connaturata al dottorato. Dovevo lasciare uno stipendio sicuro ed una carriera di tutto rispetto per barcamenarmi tra le incertezze universitarie. Guardavo la mia compagna e mi chiedevo se la nostra vita insieme non ne avrebbe risentito. L’indipendenza economica era – e resta – un fattore dal peso specifico ingombrante. Stavo facendo una puntata insidiosa con il destino. La ragione pendeva da una parte, ma il cuore mi spingeva all’opposto. Alla fine ha prevalso la passione”.
Una scintilla, quella per la storia, che sfrigolava già da tempo. “Dopo una triennale in scienze politiche alla Cesare Alfieri – racconta – ho deciso che era arrivato il momento di assecondare i miei interessi. Mio padre è sempre stato un avido lettore e mi ha trasmesso questa curiosità. Così faccio una rapida integrazione di crediti ed eccomi qua, a studiare una materia iniziata come un flirt e poi diventata sempre più seducente. A Pisa, perché è lì che seguivo i corsi, mi laureo con il Professor Gianluca Fulvetti”.
Mentre parla al telefono la figlia, tre anni e mezzo, reclama le sue attenzioni. C’è anche – anzi, soprattutto – lei, da tenere in strettissima considerazione per i giorni ancora da costruire. Quelli su cui arrampicarsi con la certezza di non aver sbagliato, anche se gli scettici pigolano risoluti: con questa materia qua – sentenziano – al massimo insegni al liceo. “La mia bimba ha praticamente accompagnato tutto il percorso di dottorato. Quando mi interrogo sul futuro, devo soppesare famiglia e ambizioni personali”.
L’inizio era stato una porta sbattuta sul naso. Capita. Al primo tentativo Lorenzo aveva fallito. “Avevo concluso un master in risorse umane e mi incanalavo verso quel settore, barcamenandomi tra lavoretti saltuari. Quando poi ce l’ho fatta, ho capito che quello era un treno che non sarebbe passato più”.
Il rapporto con Firenze però fatica a decollare. Lorenzo decide di fare il pendolare per scelta, ma riesce comunque ad apprezzare l’orizzonte lungo offerto dalla città e gli stimoli che giungono dalla scuola di dottorato. Addenta pezzi di vita cittadina, come aveva fatto alla Alfieri. Poi la pandemia si mette di traverso.
“Prima – ricorda – è arrivata una brusca interruzione delle attività legate alla didattica. Poi la scure si è abbattuta sulla ricerca. Il sistema per come lo conoscevamo ha dovuto affrontare sfide impreviste e imprevedibili e le ricadute hanno aperto crepe difficili da colmare. Chiudere ad oltranza biblioteche e archivi, ad esempio, significa togliere ossigeno ad un intero settore di ricerca. Tutto è diventato difficile il doppio. L’online ci ha soccorso, ma le distanze restavano troppo lunghe per essere accorciate”.
Gli inciampi del fato sono stati smussati dalla scelta del progetto di dottorato: affiancato dai tutor Roberto Bianchi e Gianluca Fulvetti, Lorenzo ha sviluppato una tesi sulla violenza fascista in Toscana tra il 1943 e il 1945. “Il taglio microstorico – rivela – mi ha paradossalmente aiutato molto nella fase di ricerca, considerato che gli spostamenti erano relativamente limitati. Una materia magmatica e drammaticamente attuale – osserva – che aiuta a leggere e comprendere il nostro presente, segnato da preoccupanti amnesie e rigurgiti neofascisti”.
Il bilancio del dottorato, alla fine, resta largamente positivo: “Ho affinato quegli strumenti metodologici utili a costruire una professionalità di campo largo, che ragioni oltre i compartimenti stagni. Certo, sono un po’ mancate le contaminazioni con altri studiosi, terreno fecondo per alimentare la formazione di chi fa ricerca. Ma risponderei di nuovo sì a quella telefonata. Un milione di volte”. Il futuro adesso è un cielo nebuloso, ancora da decodificare. Affrontarlo con la consapevolezza di avere scelto di sentirsi e di seguirsi, però, è un vantaggio non di poco conto.
“Adesso ho vinto un’altra borsa di studio e per qualche mese ancora potrò occuparmi di ricerca. Seguirò un importante progetto dell’istituto Ferruccio Parri. Quello che succederà dopo si vedrà: vorrei proseguire in questo percorso, ma senza sbilanciare eccessivamente le esigenze personali e familiari. Un compromesso potrebbe essere l’insegnamento alle superiori. Il quadro sarà più chiaro tra qualche tempo. Il futuro, del resto, è determinato dalla nostra storia”.