«Io, carrozziere da quando avevo 12 anni».
Mario, una vita tra martelli e lamiere. E mille sacrifici

Ha passato la vita in carrozzeria superando ogni ostacolo senza mai perdere la speranza: «Nell’84 ci fu l’incendio alla fabbrica Campolmi all’Isolotto, lì dentro c’era la mia carrozzeria messa su con fatica. Bruciò tutto ma stetti lì 24 ore ininterrotte e riuscii a portare fuori tutte le mie macchine»

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“Nel 46 siamo venuti via da Pola, in Croazia, c’erano le foibe. Con la nave siamo arrivati a Rimini e poi a Firenze perché la mia mamma lavorava alla Manifattura Tabacchi. Avevo due anni. Per otto anni abbiamo vissuto nel centro profughi di via Guelfa in uno stanzone. Poi Giorgio La Pira fece le case all’Isolotto e ci mandarono lì”. La storia di Mario colpisce fin da subito. Una Firenze che non ci ricordiamo.
“Mio padre lavorava per la Nettezza Urbana e serviva una carrozzeria in via del Palazzo Bruciato. A dodici anni non avevo più voglia di studiare e sono andato lì, alla Carrozzeria Francini. Eravamo diversi ragazzi, mi pareva impossibile imparare quel mestiere così duro e complicato; ai tempi si addirizzava tutto, non come oggi che si cambiano i pezzi. Ai tempi si imparava a forza di scapaccioni affettuosi degli operai più grandi, di buche in terra per riparare le macchine, e di martellate. Si addirizzava ogni pezzo, eravamo dei battitori che aggiustavano tutto con il martello”.
Mario, infatti, è davvero affezionato al suo primo martello: “Dico sempre che quando morirò voglio che venga sepolto con me. Ce l’ho da 65 anni, è come un figlio. Mi ricorda che questo lavoro mi è piaciuto subito, che mi è costato molti sacrifici ma anche che rifarei tutto”. Dopo sette anni da Francini, Mario parte: “Sono andato a fare il militare a Pisa, mi congedarono dopo un anno per l’alluvione del 66. A quei tempi se te ne andavi perdevi il lavoro, venivano presi altri ragazzi. Allora sul giornale lessi che Brandini cercava operai. Mi presentai e parlai anche con Cesare Brandini in persona. La mia fortuna fu che il loro operaio battitore si fece male e io addirizzai uno sportello che loro avrebbero buttato e cambiato, rimasero stupiti”.
Avere un posto fisso era un lusso che tutti cercavano ma Mario se ne stancò presto: “Io il mestiere lo conoscevo bene ormai, ero bravo. Quello era un lavoro stabile che non faceva per me. Serviva poca competenza e pagavano una miseria, 45.000 lire mensili. Rimasi solo un mese, ma intanto conobbi un loro operaio verniciatore e iniziai ad aiutarlo per dei lavoretti extra che faceva in una stanzina in cima a Benedetto Fortini, ai Moccoli. A 22 anni mi chiese di entrare in società e grazie all’anticipo di mio suocero di 500.0000 Lire, accettai”.

Mario non ha mai avuto paura di sfidarsi e alzare l’asticella: “Si guadagnava bene, mi ero comprato una 600 nuova e avevo reso a mio suocero ogni centesimo. Ma dopo due anni lascai la società per mettermi in proprio, lui era troppo lento. Me ne andai nella mia Isolotto, che era tutta campagna, e trovai una stanza in via Palazzo dei Diavoli, dentro un’aia con i contadini. Di macchine in circolo ce n’erano poche, ricordo ancora che il primo lavoro fu la seggiola da saldare della signora che stava davanti. Quindi iniziai a comprare macchine battute, addirizzarle, e rivenderle. Quando lo spazio diventò piccolo mi spostai alla fabbrica Campolmi di via Pampaloni, dove prima bruciavano le ossa degli animali morti, e dove dopo l’alluvione bruciarono tutte le carcasse d’auto e poi la chiusero per il puzzo che invadeva l’Isolotto, ancora lo posso sentire. C’erano falegnami, torniatori, carrozzerie come la mia, e una fabbrica di polistirolo”.
Proprio a causa del polistirolo, Mario nell’84 perde tutto: “Ci fu un incendio enorme. Bruciò tutto il capannone. Stetti lì 24 ore ininterrotte e riuscii a portare fuori tutte le mie macchine. La Carrozzeria Peccini rimase senza tetto e io ci misi sopra un telo da camion! Fu un bel colpo ma non mi disperai, e piano piano ripartì tutto. Mio figlio però voleva imparare il mestiere e lavorare con me, e quindi mi spostai per l’ultima volta, dove ancora oggi mi trovo”.

Mario si guarda intorno ancora incredulo di essere riuscito a realizzare il suo sogno, sacrificio dopo sacrificio: “All’inizio venivo qui la mattina presto mi chiudevo il cancello alle spalle e guardavo la mia carrozzeria per qualche istante, rivivendo ogni esperienza. In 65 anni di carriera ne ho viste di ogni, e ho insegnato questo mestiere, oggi così diverso, a moltissimi ragazzi che ancora mi vengono a trovare e mi ringraziano”. Qual è il segreto, Mario? “Avere passione, grinta, non lavorare mai nel weekend, e chiudere per tutto agosto!”. Queste le sue regole irrefutabili di uomo moderno ma di altri tempi e, soprattutto, di grande sportivo.
“Lo sport mi ha sempre accompagnato. A 38 anni ho iniziato da zero con il tennis, ero brutto da vedere e più che competitivo. Finì che vinsi cinque campionati toscani e una coppa dei campioni. Come mai? Ogni pallina per me era tutto, non mi arrendevo mai. Avevo i muscoli di un carrozziere che lavorava da quando aveva dodici anni ed ero abituato ad addirizzare tutto. E così mi comportavo anche in campo, ogni volta una soluzione, una corsa, un avversario. Grinta e fatica. Se devo vincere, io vinco”.

 

 

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