«Ho 39 anni… più 3». Così ama presentarsi, con una battuta. In realtà ne ha 42, ma preferisce scherzarci su. Nato a Teheran da genitori persiani – entrambi architetti arrivati in Italia negli anni Settanta – Max è cresciuto a Firenze. «Sono arrivato che avevo 15 giorni di vita. Questa città è la mia casa, anche se per avere la cittadinanza italiana ho dovuto aspettare di compiere 30 anni. Ci pensi? Nato e cresciuto qui, ma riconosciuto davvero solo dopo tre decenni».
La sua storia comincia dal mare. Finite le scuole, parte come cuoco sugli yacht di lusso. «Volevo imparare l’inglese, e il modo migliore era lavorare viaggiando». Da lì il salto negli Stati Uniti, dove rimane quasi quattro anni. Sempre in movimento: «Mi riconoscevano ai check-in degli aeroporti, tanto andavo avanti e indietro. Non c’era Skype: se dovevi incontrare qualcuno, prendevi un aereo per New York o Chicago. Era così».
Negli USA scopre una grande differenza rispetto all’Italia: la meritocrazia. «Se ti impegni e dimostri di voler crescere, ti danno una possibilità. Non è semplice viverci, ma il principio è chiaro: se vuoi, puoi. In Italia siamo ancora lontani da questo».
Gli Stati Uniti gli hanno regalato anche aneddoti indimenticabili. Come quella volta a Chicago: «Un autista venne a prenderci a mezzanotte, con occhiali da sole, baffo bianco e tre denti in bocca. Io e un amico passammo tutto il tragitto a prenderlo in giro in italiano, convinti che non capisse. Alla fine ci salutò con un perfetto: “Buonanotte, ragazzi”. Una figura epocale. Da quel giorno ho smesso di parlare italiano in America».
Oppure la scena con sua madre: «Dovevo organizzare un evento a Chicago e lei venne a trovarmi. La compagnia per cui lavoravo mandò una limousine a prenderla. Lei esce, vede l’autista col cartello col nostro cognome e mi fa: “Ma te per chi lavori, per la mafia?”. Non ci poteva credere. Quella scena non la dimenticherò mai».
Nel 2011 Max rientra a Firenze e fonda con due amici di scuola The Cooking Touch. Prima un piccolo bistrot a Sant’Ambrogio, poi le prime cooking class private. «All’inizio venivano parenti e amici, giusto per aiutarci a partire. Poi i clienti veri. Oggi lavoriamo quasi esclusivamente con americani: il 99% del nostro pubblico». Dal 2019 la scuola di cucina affianca il bistrot ed è diventata un punto di riferimento per i grandi hotel fiorentini: Four Seasons, Portrait, Savoy.
«Ho cucinato un po’ ovunque: sugli yacht a Capri per clienti come il CEO di Morgan Stanley, fino al rapper ex marito di Kim Kardashian. Ma la soddisfazione più grande è aver creato qui, a Firenze, una realtà credibile a livello internazionale».
Il rapporto con la città resta però complesso. «Firenze non è più quella di dieci anni fa. È sempre più cara, e i turisti cominciano a pensarci due volte prima di tornare. Non basta il Duomo: chi lo ha già visto non paga qualsiasi cifra per rivederlo. Serve offrire altro. E invece spesso qui si vive di rendita».
La sua azienda cresce nonostante tutto. «Noi ci rivolgiamo a un turismo alto di gamma, e per ora ci ha salvato. Ma basta parlare con gli albergatori per capire che i numeri non sono più quelli del post-Covid. Non si può campare sul nome: bisogna reinventarsi».
Poi c’è la vita privata. Il 15 luglio è nato Neri. «Speravo arrivasse il 4 luglio, il giorno dell’Indipendenza americana, ma è andata benissimo lo stesso. È nato il giorno del mio compleanno… ci credi? Quando ho saputo che era maschio ero felicissimo. Ho comprato la schiacciata e l’ho portata a tutto l’ospedale. È il mio unico figlio, e credo di fermarmi qui: non mi vedo a settant’anni a inseguire un adolescente».
Il suo augurio per lui è semplice: «Vorrei che diventasse una brava persona. E se un giorno vorrà portare avanti quello che ho costruito, ancora meglio. Io ho dovuto inventarmi tutto da zero. Sarebbe bello che lui potesse partire da qui».
Volevo imparare l’inglese, e il modo migliore era lavorare viaggiando