Era il 2004 quando se n’è andato giù, trentasei anni e una vita da ricominciare. A Bari ha aperto locali uno dopo l’altro: Il canto dei bischeri, Le Giare, La Staffa, Organico. Poi il giro si chiude. «Mi mancava Firenze, e mi mancava a modo mio» dice. Non il centro vetrina, ma l’Oltrarno che resiste, un po’ defilato, ancora capace di riconoscersi.
Qui mette su un’osteria pugliese di carattere, senza inchini al menù per turisti. Vini di piccoli produttori, spesso naturali, scelti con ostinazione. «Vendo solo quello che bevo. Mano, terra, facce: mi interessa questo.» San Frediano e dintorni, secondo lui, tengono ancora botta: «C’è movimento vero, non la giostra.»
Le sue regole suonano come inviti. La prima: lasciare il cellulare all’ingresso. Tutto il tavolo. In cambio, uno sconto e un tempo diverso. «Senza schermo si ricomincia a parlarsi. Meno foto ai piatti, più parole tra i piatti.» Non è nostalgia, è igiene sociale.

La seconda è quasi un gioco: niente “diritto di tappo”, ma diritto d’assaggio. Chi ha una bottiglia a casa che non apre mai, la porta e la stappa con gli altri: «Io assaggio un goccio, il resto è vostro. Il vino è un detonatore di conversazioni.» Ci scappa il contatto, la storia, a volte persino un’amicizia.
Poi c’è il martedì di villaggio: il primo martedì del mese l’osteria resta chiusa “ai conti” e si apre ai vicini. Si suona ai campanelli, si portano cose semplici e pulite, si condivide. Nessuna cassa, nessun pos. «Mi serviva per conoscere chi avevo intorno. Siamo partiti in dieci, siamo arrivati in cento. Ora si chiamano tra loro, si aiutano, si ritrovano.» L’Oltrarno, per qualche ora, torna paese.
Massimo guarda Firenze con un realismo affettuoso. Vede turisti meno scintillanti e ragazzi più curiosi, panifici che studiano la farina e trattorie che non mollano brodi e zuppe. Sulla lavagna della cucina ha scritto i nomi di altri posti dove andare: «Se mi chiedi un consiglio, te lo do. O si fa sistema o si muore di vetrina.»
Viaggia, visita cantine, porta in sala bottiglie che raccontano strade e persone. «Cambiare fa bene. Ma poi serve un luogo in cui restare, e parlare. L’osteria è questo.» Non promette rivoluzioni. Promette bicchieri pieni, tavoli vivi, silenzi brevi e voci chiare.
Firenze, da parte sua, a volte sembra brontolare. Ma quando trova qualcuno che la prende per quello che è, risponde. «È una città che ti manda a quel paese e poi ti versa da bere», dice Massimo sorridendo. In Oltrarno, succede ancora. E non serve un telefono per accorgersene.
Se mi chiedi un consiglio, te lo do. O si fa sistema o si muore di vetrina.
Alvise Lorenzi















































































































































