Ha iniziato con la moda, quasi per destino familiare. Parigi, New York, un visto negato nel post 11 settembre e il ritorno a Firenze. Nel 2003 apre Gold: sticker ovunque, feste, maglie regalate, sneaker quando erano ancora controcorrente. «Non mi interessava vendere: mi interessava comunicare.» Il negozio diventa un punto di passaggio più che una cassa: un luogo dove provare cose, mescolare hip-hop, graffiti, dj set, estetica e identità.
Poi la svolta. Il cinema lo affascina, ma l’accesso è una trincea. Omar cerca un linguaggio che non sia la scorciatoia del cortometraggio: nel 2015 infila un visore e capisce che lì c’è spazio per ripartire da zero. «Con la VR non puoi ripetere le regole del cinema: lo sguardo in camera non rompe la narrazione, la potenzia. Sei dentro.» Comincia a sperimentare con Elio Germano, guarda ai Lumière invece che a Hollywood, filma campi profughi e margini dimenticati. Vince un bando a Venezia, viaggia, registra luoghi e corpi a 360°.
L’ossessione è una: trasformare la visione in esperienza condivisa. All’inizio compra 20 visori per proiezioni sincrone; oggi sono oltre 300. Le sale si riempiono, la gente parla all’uscita. «La VR non vive su Internet. Vive insieme.» Con La mia battaglia di Germano crea un dispositivo teatrale in cui lo spettatore diventa personaggio; con la Pergola ribalta le convenzioni del palcoscenico. Durante la pandemia lavora con Rai: piazze vuote, città sospese, una Firenze deserta guidata da Federico Russo e la voce di Maurizio Lombardi. «Le immagini in tv le avevamo tutti. Essere dentro era un’altra cosa.»
La ricerca prosegue: il vulcano islandese esploso dopo 700 anni, Hiroshima e Nagasaki per parlare di disarmo, Lucca Comics e il ritratto del Maestro Yoshitaka Amano. Nel frattempo matura la credibilità per tornare anche al cinema tradizionale: un documentario sul fumetto come linguaggio, sette autori della sua generazione, ospiti che attraversano mondi diversi. «Ho sempre seguito i linguaggi: rap, graffiti, moda, VR, fumetto. Non per moda, ma perché ti aiutano a dire la cosa giusta nel modo giusto.»
Firenze, nel frattempo, resta casa e bersaglio. «Siamo spesso nemici di noi stessi. Il centro si svuota, i negozi storici chiudono, l’Odeon è stato un colpo. Ma non è una condanna.» Omar sceglie di non emigrare a Milano o a Roma. Si costruisce un ufficio condiviso con produttori, attori, sceneggiatori; tiene viva la dimensione artigiana del lavoro, quella che passa dai corpi e non dagli algoritmi. «Voglio coordinare creatività, non rincorrere i like. Il pubblico non è un grafico di insights.»
Tra un set e una proiezione, resta una convinzione semplice, quasi ostinata.
“Siamo ancora quelli che si raccontano storie attorno a un fuoco. Il fuoco oggi può essere un visore, ma funziona solo se ci sediamo vicini.”
Voglio coordinare creatività, non rincorrere i like. Il pubblico non è un grafico di insights.