Maria, da New York a Firenze.
“Qui c’è ancora il senso della comunità e per strada ti salutano”

Dalla New York dei grattacieli alla Firenze dei calzolai che ti riconoscono per strada. La storia di Maria Mattson, 30 anni, travel designer per clienti miliardari, che ha trovato nel caos gentile dell’Oltrarno un nuovo modo di sentirsi a casa.

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Arriva da New York, lavora per un’agenzia di viaggi di lusso e ha scelto Firenze “perché qui si cammina”. In diciotto mesi Maria Mattson ha trovato una routine leggera, una comunità che ti riconosce al volo e l’idea che casa, a volte, è un tono di voce.

New York, scuola d’arte LaGuardia, arpa come primo amore. Poi la Svizzera per studiare hospitality a Glion, Londra tra il Ritz e il Mandarin, Miami al Four Seasons. Oggi Maria vive tra Campo di Marte e il centro e lavora per Kax Lifestyle, realtà che segue membri annuali e viaggi su misura: voli, ville, barche, biglietti impossibili. “The impossible is possible” è più un promemoria che uno slogan.

Firenze l’ha scelta lei. Le avevano proposto Roma, ha chiesto l’Arno. La prima volta ci era venuta da adolescente con i genitori, poi una stagione a Forte dei Marmi e amici trovati lungo la strada. “Qui c’è cultura e movimento, ma la scala è umana. E si va ovunque a piedi.”

La giornata inizia presto, con le mail prima ancora del caffè, poi palestra o pilates; alle 11.30 si entra nel fuso orario americano per lavorare in overlap con i colleghi. Maria alterna call, richieste urgenti e site inspection: per un matrimonio fissato a settembre 2026 sta girando location e mandando video ai clienti negli Stati Uniti. La reperibilità è parte del gioco. “Se un cliente scrive di sabato e conta su di te, lo aiuti. I pro superano i contro.”

Il senso di comunità è la differenza. Un tassista che la riconosce dopo una corsa dalla stazione. Il calzolaio che la ferma per dirle che le scarpe sono quasi pronte. Un negozio di Sant’Ambrogio che le presta due comodini “provali a casa, poi decidi”, senza acconti. “A New York non succederebbe. Qui sì, e ti fa sentire parte di qualcosa.”

Non tutto è semplice: la lingua quando serve il medico, l’eterno tema dell’asciugatrice. Sui coetanei sorride: gruppi nati alle elementari e rimasti gli stessi, ma nessuna vera chiusura. “Conta l’adattabilità. E imparare l’italiano: non è obbligatorio per vivere a Firenze, ma è rispetto.”

A tavola preferenze chiare: fegatini cinghiale e bistecca sì, lampredotto non una prima scelta. Estate al mare più vicino, Forte dei Marmi in bicicletta; in autunno Chianti. Lista dei desideri aperta: Giappone, un safari “magari per il viaggio di nozze” e una giornata con calma agli Uffizi.

Il lavoro le ha insegnato che le richieste “impossibili” si smontano in telefonate. Una volta le hanno chiesto una popstar internazionale su una barca in 48 ore: preventivi fuori scala, contatti, un piano B trasformato in performance privata. “Quando funziona, non senti nessuno: vuol dire che è andata bene.”

C’è anche un sogno che guarda al Queens: riportare in vita un vecchio edificio di Forest Hills e farne un boutique hotel, un ponte ideale tra le due città che la definiscono.

Alla fine, Firenze resta la parola che non le veniva: speciale è banale, magica fa storcere il naso, ma rende l’idea. “Passo sul Ponte Vecchio per la millesima volta e ancora mi fermo. È bello sapere che una città può continuare a sorprenderti e, ogni tanto, chiamarti per nome.”

Qui c’è cultura e movimento, ma la scala è umana. E si va ovunque a piedi.

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