«Michele, sei nato in giorni strani, con il mondo capovolto. Tuo padre lo hai conosciuto dopo 4 giorni e tua nonna ti ha visto di sfuggita senza poterti toccare. Ti abbiamo tenuto stretto stretto, tutto per noi, per tanto tempo… ed è stato bellissimo». Tra qualche anno, Carlotta racconterà questo al suo bimbo nato lo scorso 19 marzo, in piena pandemia da Coronavirus.
Michele ha scelto di nascere il giorno della festa del papà. «Papà e non babbo, perché Matteo, il mio compagno, è di Varese e ci tiene». Sorride Carlotta, impiegata di 40 anni, mamma per la seconda volta. «L’abbiamo cercato e l’abbiamo voluto tanto questo bambino. Se non fosse per l’età, farei anche il terzo». Se da piccina le chiedevi cosa voleva fare da grande, Carlotta rispondeva “la mamma”. «Non sono una di quelle donne che parla solo di figli, però. Il lavoro è importante e c’è spazio per fare tutto, ma essere mamma mi completa, mi realizza, mi dà la consapevolezza delle mie priorità».
Michele è nato a Careggi, di pomeriggio. Il padre Matteo non era lì perché la pandemia ha negato anche questo momento. Erano solo Carlotta e Michele, in un reparto stranamente più tranquillo. «Da una parte meglio, è strano dirlo, ma senza le visite sei più a tuo agio». Tra poppate e cateteri, le condizioni per ricevere amici e parenti non sono sempre le migliori. Nei corridoi della maternità soltanto madri e neonati. Una solitudine che crea complicità, ma anche amarezza. «Un giorno ho avuto un crollo emotivo, scrivevo al mio compagno che mi mancava tanto. Quella solitudine non riuscivo a sopportarla, ma non potevo fare altrimenti, era giusto così. Poi quando Matteo è venuto a prenderci, abbiamo recuperato il tempo perduto».
Le notti colorate dalle luci blu delle stanze dell’ospedale e movimentate dalle poppate e dai cambi continui sono una quotidianità ritrovata che Carlotta si è portata dietro fino a casa. «Non ho tanto tempo, la poppata ogni due ore, poi il ruttino, il cambio e senza farci caso passano due ore e si ricomincia. Poi devo dare attenzioni particolari alla sorella più grande». Giorgia, 4 anni e mezzo, guarda da lontano con lo sguardo stranito la mamma che allatta il fratellino. «Un po’ di gelosia c’è, anche verso il padre, ma è una brava sorellina, lo bacia e lo scruta nella carrozzina quando dorme». Essere costretti a casa di certo non aiuta ad affrontare un momento così delicato, ma ci si arrangia: «Inventiamo giochi, ora stiamo organizzando una caccia al tesoro».
Essere madre significa anche convivere costantemente con i sensi di colpa, con la sensazione di non fare abbastanza e di sbagliare. «Per la nascita di Giorgia avevo fatto tanti preparativi, il quadretto a punto croce, avevo già scritto cinquanta pagine di diario, la stanza arredata nei minimi dettagli. Per Michele, poverino, non ho finito il quadretto e sul suo diario ho solo scritto il nome e la data di quando abbiamo saputo che era un maschietto». I secondi vivono sempre sulla scia dei primi, pagano la mancanza di novità. «Ma non è vero che una mamma si divide, l’amore semplicemente raddoppia. Non c’è un più o un meno, semplicemente sono due rapporti diversi. Con Giorgia ho una complicità unica, è lei che mi ha portato la maternità».
Le giornate scorrono piene, tra giochi e coccole. Qualche videochiamata con i nonni e gli zii chiusi in casa, le foto che rimbalzano via chat tra Firenze e Varese. «Hanno tutti una voglia matta di conoscere Michele e di rivedere Giorgia e questo ci fa sentire più uniti in famiglia». Fuori c’è la pandemia, eppure la casa di Carlotta non è mai stata così piena e colorata di vita.